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LE VITTIME DI ESTORSIONE E DI USURA NEL PROCEDIMENTO PENALE. A cura dell'Avv. Rispoli.

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Relazione introduttiva
dell'avvocato Roberta Rispoli,
Coordinatrice dell'ufficio legale di Napoli della FAI
Lunedì 16 giugno 2014
Università Federico II, Napoli

L'idea del convegno di oggi nasce dall'esperienza concreta di numerosi procedimenti penali in cui
le associazioni antiracket ed antiusura si sono costituite parte civile a sostegno delle vittime.
Si è avvertita l'esigenza di sollecitare un confronto, tirare le somme di una esperienza decisamente
positiva, non senza porre in evidenza le criticità emerse.
A tal proposito e per entrare immediatamente nel vivo della questione, prendo spunto da una
sentenza di merito pronunciata all'esito di un procedimento in cui confluivano cinque distinte
vicende estorsive –contestate agli imputati con l'aggravante di cui all'art. 7 del D.L. 13 maggio
1991 n. 152- e venivano individuate sei vittime, tutte costituitesi parte civile.
Si legge in PREMESSA:
"E' notoriamente assai alto il rischio che, allorché si trovi a dover esaminare vicende concrete che
siano espressione di problematiche annose, ma al tempo stesso, di strettissima attualità e che nel
loro quotidiano ripetersi impressionano la cronaca e l'opinione pubblica, il Giudice possa subire,
inconsapevolmente, il fascino fuorviante di suggestioni, emozioni o, peggio, di malintese pulsioni
"giustizialiste" che lo inducano nella sua decisione a delineare o tracciare un quadro ascrivibile
alla sociologia o alla politica piuttosto che al corretto esercizio della funzione giurisdizionale [...].
[...] Ma se da un lato è auspicabile anzi doveroso evitare rectius sanzionare e prevenire il ripetersi
di simili eventi criminosi, è necessario dall'altro evitare che il Giudice possa, in buona fede,
credere –prescindendo forse dai dati concreti- di "porre riparo" ad una presunta ingiustizia
realizzando così, egli stesso, un'ingiustizia che sarebbe quella di privilegiare il giudizio etico e
l'ansia, legittima, di sicurezza nella valutazione della condotta antidoverosa dei vari imputati.
Siffatto rischio è ancora più concreto allorchè, come nel caso di specie, l'attività criminosa si sia
estrinsecata in un piccolo paese finendo –di certo involontariamente ma quasi automaticamente-
col creare una sorta di frattura –processualmente caratterizzata- tra gli imputati e le vittime poi
costituitesi parte civile con l'intervento di associazioni che nelle loro finalità istituzionali e
statutarie perseguono, appunto, la "lotta" al racket, mafioso o no che sia, ed è innegabile che
siffatto assetto abbia in qualche modo tentato, ma vanamente, di influenzare il lungo ed
articolatissimo dibattimento [...]".
Non si tratta di un approccio giurisprudenziale remoto, ma di una pronuncia del Tribunale di
Foggia, anno 2014.
Il piccolo paese cui si fa riferimento è il territorio di Vieste dove -a seguito di una interminabile
serie di atti intimidatori perpetrati ai danni di operatori economici- alcuni imprenditori, nel
dicembre del 2009, costituivano una vivace associazione antiracket. Nei mesi successivi, alcuni di
essi avviavano un faticoso percorso di denuncia delle estorsioni tentate e/o consumate. Ne scaturiva
il processo conclusosi con la citata pronuncia, in cui, insieme alle vittime, si costituivano parte
civile la F.A.I., la neonata associazione antiracket locale, il Comune di Vieste, il Commissario
Straordinario Antiracket ed il Ministero dell'Interno.

Per numerose udienze, in particolare in occasione della testimonianza delle persone offese, una folta
rappresentanza delle associazioni antiracket era presente in aula, manifestando ai colleghi il proprio
sostegno; insieme ad essa, esponenti delle istituzioni e comuni cittadini.
Da Vieste, all'alba, un pezzo di società civile partiva in autobus noleggiati e si recava a Foggia per
assistere al processo: una presenza silenziosa, sempre discreta eppure, innegabilmente, eloquente
poiché voleva dire che gli imprenditori, nel proprio percorso di denuncia, non erano né soli né
isolati.
Il risultato plastico era un'aula divisa in due: da una parte le associazioni, i cittadini, le istituzioni;
dall'altra, (intere) famiglie degli imputati.
Tale immagine –che il Tribunale di Foggia ha letto, evidentemente, come una potenziale minaccia
al corretto svolgersi del dibattimento restandone inquietato– si era già prodotta, per la prima volta,
nel 1991 dinanzi al Tribunale di Patti nel processo nei confronti degli estorsori di Capo d'Orlando
così come, più di recente, ad Ercolano, dove si è parlato di una vera e propria rivolta civile.
Purtroppo, ancora oggi, ascoltiamo l'opinione di chi ritiene che l'esercizio dell'azione civile nel
processo penale rischi di turbare il normale equilibrio delle parti; tra alcuni operatori del diritto
serpeggia tuttora il parere che la costituzione di parte civile rappresenti un inutile, se non dannoso,
appesantimento del processo.
Nessun commerciante o imprenditore, entrato a far parte dell'esperienza associativa, è mai rimasto
solo nei momenti cruciali del processo.
E' questo il ruolo dell'associazione antiracket o antiusura costituita parte civile.
Sotto il profilo della legittimazione processuale, l'ammissibilità della costituzione di parte civile
delle associazioni antiracket ed antiusura, fornite della personalità di diritto privato, ha
rappresentato una conquista giurisprudenziale di non poco momento. E' ormai pacifico il
riconoscimento, in capo alle associazioni antiracket ed antiusura, alla stregua dei fini statutari
assunti, non di un mero interesse diffuso, bensì di un vero e proprio diritto soggettivo alla libertà di
iniziativa economica privata, in quanto tale suscettibile di lesione e di conseguente risarcimento.
Numerosissime sono le pronunce che individuano una lesione al sodalizio ed agli scopi perseguiti
non soltanto quando il giudizio di responsabilità degli imputati verta in merito alla sussistenza di
un'associazione di stampo mafioso, ovvero di un reato di pericolo per la collettività, ma anche
quando siano contestati agli imputati singoli episodi di estorsione o di usura.
Se si condivide il diritto, la lesione del diritto, non può non condividersi anche la tutela del
medesimo.
La presenza dell'associazione antiracket in aula altera un equilibrio, che poi equilibrio non è,
sottraendo le vittime all'isolamento ed alla condizione di debolezza che ne deriva; come più volte
Tano Grasso ha incisivamente descritto, incide sul clima, toglie spazi agli imputati ed ai loro
familiari che tradizionalmente li occupano, vuol dire "riconquistare" quegli spazi creando un
contesto ambientale più favorevole ai testimoni dell'accusa.
E' speculare all'attività di contrasto svolta sul territorio di riferimento.

Dinanzi alla Magistratura attenta e sensibile del Tribunale di Napoli –che ha, peraltro, contribuito
notevolmente alla creazione giurisprudenziale del "diritto" alla costituzione di parte civile delle
associazioni antiracket ed antiusura- si è svolto il processo del cosiddetto "modello Ercolano":
quarantuno imputati del delitto di cui all'art. 416 bis c.p. e/o di estorsione aggravata, diciannove dei
quali hanno optato per il rito abbreviato. Dalla ricostruzione accusatoria è emerso un sistema di
taglieggiamento a tappeto realizzato dai locali clan Ascione-Papale e Iacomino-Birra; sono state
individuate quarantadue persone offese, di cui ventisette costituitesi parte civile insieme
all'associazione antiracket ed al Comune.
Hanno testimoniato trentatre vittime, sempre accompagnate in aula dal Sindaco Vincenzo Strazzullo
e dalle forze dell'ordine, da numerosi esponenti delle associazioni antiracket, da tanti colleghi.
Una sapiente attività investigativa, una sana presenza istituzionale, il consolidarsi di un'attiva
associazione antiracket hanno infuso fiducia, sollecitando decine di commercianti ad infrangere il
muro dell'omertà ed a denunciare i soprusi e le vessazioni subite, a volte, per lunghi anni; il
coraggio degli uni è divenuto contagioso per gli altri.
In dibattimento, ciascuno ha testimoniato con la consapevolezza di non essere né solo né isolato,
comprendendo che l'esito del processo sarebbe dipeso non solo e non tanto dalle proprie
dichiarazioni, ma dalle dichiarazioni di decine di colleghi, oltre che di numerosi soggetti che nel
frattempo avevano intrapreso percorsi di collaborazione.
Ciò si è tradotto in un fiume di testimonianze lineari e coerenti, senza remore né tentennamenti,
fatte salve una o due eccezioni; in alcuni casi, la testimonianza in dibattimento è divenuta essa
stessa l'occasione (liberatoria) per la denuncia di ulteriori fatti estorsivi mai riferiti prima.
A volte, il coraggio è apparso addirittura troppo.
Ricordo che, poco dopo l'inizio del processo, partecipai insieme ai colleghi dell'ufficio legale ad
una riunione dell'associazione di Ercolano; avevamo il compito, insieme ai dirigenti antiracket, di
far capire alle numerose persone offese presenti cosa stesse accadendo, le scelte del rito, come si
svolge una testimonianza, l'esame ed il controesame, il principio del contraddittorio.
Per un commerciante che non ha mai messo piede in un'aula di giustizia appare ictu oculi una
contraddizione l'essere chiamato a denunciare una seconda volta: se ho reso dichiarazioni
accusatorie –si domanda- come è possibile che il Tribunale non ne abbia già contezza?
Ingenuamente, potrebbe sembrare un preoccupante deficit.
Tano Grasso disse che i primi testi avrebbero assolto un compito leggermente più faticoso, poiché
tutto stava nel rompere il ghiaccio e nello spianare la strada ai testi successivi.
Alla fine dell'incontro, un commerciante mi chiese a chi spettava stabilire l'ordine delle
testimonianze ed io spiegai che lo avrebbe fatto il P.M.
"E non si può chiedere al P.M. di citarmi tra i primi?", mi chiese Fabio (nome di fantasia).
La richiesta mi sorprese, poiché mi era apparso schivo e timoroso; mi stupì, pertanto, la sua
premura. Mi spiegò che la tensione emotiva era diventata insopportabile, da non dormirci la notte.

Il caso volle che Fabio testimoniasse tra gli ultimi; in aula stentavo a riconoscerlo per la sicurezza
mostrata, ai limiti della spavalderia.
Cosa era accaduto? Settimane di efficace training autogeno, il timore di non essere all'altezza degli
altri, la forza del sostegno ricevuto?
L'estorsore di Fabio fu condannato per la condotta ascrittagli, con l'esclusione dell'aggravante di
cui all'art. 7 del D.L. n. 152/91, non essendo emersa quella particolare forma di coartazione
psicologica che connota il metodo mafioso.
Può diventare estremamente complesso assumere e valutare appieno la testimonianza di un
imprenditore o di un commerciante in terra di mafia, il senso delle affermazioni, dei gesti, del tono
della voce, il percorso retrostante; occorrerebbe entrare nella mente umana e nei processi, a volte
tortuosi, ivi compiuti, ma questo non è possibile, né consentito, né codificabile, neanche opportuno
in ossequio alle garanzie ed ai principi offerti dal giusto processo.
Occorre però un'attenzione particolare, una tutela del teste che vada oltre la norma.
Ritornando alla sentenza recentemente pronunciata dal Tribunale di Foggia, si legge, con
riferimento all'esclusione dell'aggravante di cui all'art. 7 del D.L. n. 152/91, ed in particolare sotto
il profilo oggettivo: "... da parte di tutti i testi, ivi comprese le persone offese, non vi è stato –a
parte un davvero generico accenno ad una situazione di timore ovvero alle dicerie del paese- alcun
riferimento esplicito alla paura per l'esistenza di un clan malavitoso".
Ebbene, Giuseppe, per fare un esempio, imprenditore al quale, da ultimo, un incendio doloso aveva
completamente raso al suolo un importante lido turistico con annesso ristorante, aveva fatto più
volte riferimento alla propria paura. In sede di controesame, aveva chiarito di aver denunciato le
richieste estorsive subite non nell'immediatezza dei fatti, ma solo dopo un anno, supportato dal
conforto dell'associazione antiracket; precisava: "avevo paura dell'associazione perché per me loro
erano organizzati...".
Domanda del Tribunale: "Lei aveva paura dell'associazione, cioè dell'associazione deliquenziale?"
Giuseppe: "Sì". Ed, ancora, riferendosi a parziali reticenze mantenute in una fase iniziale della
denuncia, specificava: "Prima non l'ho fatto perché avevo paura, dopo qualche giorno mi sono
detto: questi non si fermano più, se non vado a denunciare va a finire che questi mi bruciano tutto
ed allora ho deciso di parlare".
Ci si chiede cos'altro Giuseppe avrebbe potuto o dovuto riferire nel corso di un controesame
estremamente aggressivo per esprimere compiutamente il tenore dell'offesa subita, la condizione di
intimidazione, la propria paura, senza limitarsi ad un "generico accenno" alla stessa.
Giuseppe non è un teste indifferente, è una vittima.
E' noto che, per costante orientamento della Corte di Cassazione, la persona offesa - pur essendo
considerata dal legislatore alla stregua di un qualunque testimone- va collocata in una posizione
diversa rispetto a quella del teste, stante il ruolo che assume nell'ambito del processo sia quando si
costituisca parte civile, sia quando non eserciti tale facoltà. Mentre, infatti, il testimone è per
definizione una persona estranea agli interessi in gioco del processo, la persona offesa è in una
posizione di antagonismo nei confronti dell'imputato, per la semplice istanza di ottenere giustizia
con la condanna di questi. Ciononostante, le dichiarazioni della persona offesa possono essere
poste, anche da sole, a fondamento dell'affermazione di penale responsabilità, previa verifica della
credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto che, peraltro,
deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di
qualsiasi testimone.
Ci si chiede se l'impegnativo contributo dichiarativo giustamente richiesto alla persona offesa –
contributo irrinunciabile per il peso che il più delle volte assume nella ricerca della verità- non
richieda, di contro, una più incisiva forma di tutela. E se si tenga conto abbastanza della
vulnerabilità della vittima di estorsione, tanto più in contesti di criminalità organizzata, e, per altri
versi, della vittima di usura. In terra di mafia, la denuncia di un imprenditore o di un commerciante
non è mai un atto indolore; la testimonianza può essere più o meno sofferta, ma non è mai un atto
neutro.
La collocazione del reato di estorsione tra i delitti contro il patrimonio appare spesso fuorviante o,
quanto meno, riduttiva.
In dottrina si è anche tentato timidamente di individuare, nel delitto di estorsione, il pregiudizio di
beni giuridici di rango superiore, quali l'integrità personale, l'onore; tale opinione è rimasta,
tuttavia, isolata.
Mi viene in mente Filippo, un coraggioso imprenditore edile della Provincia di Napoli, che ha
denunciato decine di estorsori, li ha filmati, ne ha registrato le conversazioni; si è sovraesposto al
punto tale da vivere, oggi, sotto scorta h 24. Filippo era diventato egli stesso terreno e strumento di
scontro tra clan; ad un certo punto, non potendone più delle angherie e delle umiliazioni subite,
decise di rinunciare al suo lavoro e chiudere il cantiere: non poté farlo, i clan glielo impedirono
poiché il suo cantiere era funzionale alla lotta per l'affermazione della supremazia sul territorio.
L'offesa al patrimonio subita da Filippo, seppur rilevante, non può non apparire secondaria di fronte
ad un'offesa che incide sulla libertà e sulla dignità di uomo e di imprenditore.
Paradossalmente, oggi, l'esistenza e l'operatività del modello associativo, la sensibilizzazione di
alcuni territori sui temi del racket e dell'antiracket acuisce la portata offensiva del ricatto estorsivo:
un tempo, il pizzo veniva percepito come una sorta di costo dell'impresa; l'acquiescenza una
condotta ineluttabile. Oggi l'operatore economico non ha più alibi, poiché il sostegno
dell'associazione consente di denunciare salvaguardando la sicurezza personale e della propria
azienda.
Pertanto, sin dal momento della prima richiesta estorsiva, non ci si trova più dinanzi alla
imposizione di una tassa, bensì di fronte alla responsabilità di una scelta.
Ciò non vuol dire che l'associazione possa sostituire il coraggio del singolo; l'imprenditore deve
fare comunque i conti con le proprie ansie, con i propri timori, con l'evento traumatico subito,
rivissuto con la denuncia e, ancora più, con la testimonianza in dibattimento.

Il nostro sistema penale appare spesso poco attento alle esigenze della vittima, al diritto di essere
tale; occorre interrogarsi se, oggi, il bilanciamento tra il diritto di difesa e gli interessi della vittima
sia sufficientemente proporzionato.
A proposito delle persone offese dal reato, recentemente Piercamillo Davigo in un libro scritto con
Leo Sisti ("Processo all'italiana"), così si esprime: "C'è una categoria di individui che il codice
non tratta adeguatamente rispetto alle situazioni che li vedono, malgrado tutto, protagonisti".
Infatti, l'intero impianto processuale è costruito per tutelare i diritti di difesa degli imputati,
rendendo del tutto residuali quelli delle vittime. I poteri che il codice assegna alla persona offesa
sono marginali e, soprattutto, non garantiscono la possibilità di un intervento incisivo nel
procedimento penale. I poteri previsti ex art. 90 c.p.p. sono meramente "sollecitatori": si possono
presentare memorie e indicare elementi di prova, nulla più. Certo, l'offeso gode di diritti di carattere
"informativo": alla vittima è notificato l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare e il decreto
che dispone il giudizio, sicchè la stessa può valutare l'opportunità di costituirsi parte civile (quindi
di rivendicare il solo diritto al risarcimento); se ne ha dichiarato tempestivamente la volontà, è
avvisata dell'eventuale richiesta di archiviazione. Se non lo ha fatto - e a volte accade- non può
neanche opporsi.
Esistono vari livelli su cui intervenire, modificando il codice di rito se necessario. Se l'indagato,
subito dopo l'arresto, può, attraverso il suo legale, interloquire con il pubblico ministero, non si
capisce perché questo diritto non debba spettare anche a chi è stato vittima di quel reato, al di là
della sensibilità del singolo magistrato. Non può bastare l'intervento dell'associazione antiracket
che stabilisce un rapporto con il pubblico ministero, che acquisisce informazioni sullo stato del
procedimento, che indica alla vittima i benefici a cui potere accedere; questa è comunque
un'eccezione e dipende dall'esistenza dell'associazionismo antiracket: ciò che serve è che queste
modalità vengano messe a regime e generalizzate.
Antonello Mura e Antonio Patrono, altri due magistrati, in "La giustizia penale in Italia: un
processo da sbloccare. La lezione americana", hanno descritto come la legislazione degli Stati
Uniti abbia ben codificato tutta una serie di "attenzioni" verso le vittime, attenzioni inesistenti
nell'ordinamento italiano. Ad esempio, la vittima ha il diritto di essere informata di ogni
scarcerazione dell'imputato; i procedimenti devono svolgersi senza ritardi irragionevoli.
Quest'ultimo aspetto è assai importante: il processo in cui vi è una vittima che abbia deciso di
costituirsi parte civile non può essere trattato come uno qualunque. Qui c'è il valore aggiunto di
una vittima che si è esposta e lo ha fatto in un contesto di omertà; i tempi devono essere
necessariamente più veloci proprio per non disperdere quel valore aggiunto. Vogliamo a tal
proposito richiamare la significativa direttiva diramata proprio nei giorni scorsi dal presidente del
Tribunale di Napoli Carlo Alemi che individua tra i processi a "trattazione prioritaria" quelli con la
presenza di parti civili.
Ma vi è di più.
Esiste un innegabile, ontologico interesse della vittima alla punizione del reo, non codificato dal
legislatore, tant'è che la vittima –anche quando sia parte civile- non può interloquire sulla pena, non
può impugnare una sentenza se non ai fini risarcitori.

Tra l'altro, è un dato di fatto che l'accertamento in ordine alla sussistenza o meno dell'aggravante di
cui all'art. 7 D.L. 152/91 incida notevolmente, se non in maniera dirimente, sulle concrete
possibilità della vittima di soddisfare i propri interessi civili.
La legge n. 512/99 –istitutiva del Fondo di Rotazione per la solidarietà per le vittime dei reati di
tipo mafioso- ha infatti sancito il diritto di accesso al citato Fondo, per il risarcimento dei danni
liquidati in sentenza, delle vittime che si siano costituite parte civile nei confronti degli imputati del
delitto di cui all'art. 416 bis c.p., dei delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art.
416 bis c.p., dei delitti commessi al fine di agevolare l'attività delle associazioni di tipo mafioso.
Tale previsione ha costantemente offerto senso compiuto ed efficacia ad azioni civili che,
altrimenti, avrebbero conservato un elevato ma mero valore simbolico.
Con la legge 15 luglio 2009 n. 94 è stato escluso il diritto di accesso al Fondo per gli Enti, se non
limitatamente alle spese processuali, precedentemente previsto. In tal modo, si è indubbiamente
sottratta una essenziale forma di sostentamento alle associazioni cosiddette "esponenziali" che
garantiscono alle vittime una forma di assistenza –non solo nella fase processuale- difficilmente
fungibile.
Piuttosto, il proliferare di associazioni sulla carta, poco o per nulla operative, imporrebbe una più
approfondita valutazione, quanto meno ai fini risarcitori, in merito alla concreta attività ed
incidenza delle stesse sul territorio.
La Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012, che istituisce
norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, dovrà essere
recepita entro il 16 novembre 2015.
E' auspicabile che il nostro legislatore colga l'occasione per una rivisitazione sostanziale della
posizione della vittima nel processo penale alla stregua di più avanzati principi di civiltà giuridica.
Ex facto oritur ius, recita un'antica massima: il diritto nasce dal fatto.
E la straordinaria esperienza di resistenza di sempre più numerosi imprenditori che si oppongono al
ricatto mafioso non può che essere un fatto.

 

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